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Corte di Cassazione

Legittimo il licenziamento del dipendente che utilizza il pc dell'ufficio per fini personali

No al file-sharing, al porno e all’utilizzo della posta elettronica per scopi personali. Gli ermellini chiariscono definitivamente la vicenda di un licenziamento disciplinare.

La Cassazione, sez. lavoro con sentenza n. 17859 dell'11 agosto 2014 ha rigettato il ricorso proposto dal lavoratore licenziato per motivi disciplinari. Le argomentazioni difensive, proposte nei motivi del ricorso, non sono bastate alla Suprema Corte per ritenere illegittimo il licenziamento disciplinare.

I fatti addebitati al lavoratore sono suddivisi in ordine alle contestazioni disciplinari mosse dal datore di lavoro: la prima, consisteva nella copia non autorizzata di dati informatici e nell’installazione sul computer di lavoro del programma informatico Emule di file-sharing; la seconda, poi, nella conservazione sul medesimo computer di disegni tecnici definiti riservati, nonché di filmati e fotografie pornografiche e di un programma di posta con account personale.

La sentenza della Corte d’appello di Brescia, impugnata, aveva già accertato, poiché verificato in fatto, che era affisso nella bacheca aziendale, ai tempi dei fatti di causa, un regolamento e copia del CNNL contenente il codice disciplinare da rispettare. In particolare, tali fonti vietavano sia l’accesso ad Internet ai dipendenti e l’utilizzo della posta elettronica per scopi personali che il trafugamento di schizzi o disegni e documenti dell’azienda.

Così anche la Cassazione ha rigettato i motivi del ricorso perché infondati ed inoltre ritenuto che “le condotte addebitate al lavoratore integrano gli estremi delle violazioni alle norme disciplinari sopra dette: infatti, l’uso del programma di file-sharing, l’uso della posta elettronica per scopi personali, il download di foto e filmati pornografici, sono tutte attività che presuppongono l’uso della rete Internet, vietato dalle disposizioni disciplinari; per altro verso, rientra nella previsione contrattuale  addebitata al lavoratore e consistente nella copiatura di dati aziendali senza autorizzazione e nella loro conservazione sul suo computer, restando inidonea e legittimante la condotta la possibilità riconosciuta al dipendente di accesso ai detti dati e di loro visione, essendo tale attività – per la quale comunque occorreva pacificamente apposita autorizzazione del datore, nella specie non data – diversa rispetto a quella, più incisiva, posta in essere, di copiatura e salvataggio dei dati”.

Insomma, sul posto di lavoro o si lavora o si scarica l’impossibile e a quel punto si paga con il licenziamento. 

Gianmarco Sadutto

(29 agosto 2014)

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