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CONSIGLIO DI STATO

Edilizia: intrasmissibilità agli eredi delle sanzioni pecuniarie

i principi sanciti dalla Sesta Sezione nella sentenza del 29 marzo 2019.

Un Comune nel novembre 1993 notificava ad un cittadino una ordinanza ingiunzione per aver realizzato opere edilizie in difformità rispetto alla concessione edilizia rilasciata (in particolare veniva applicata la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 12, comma 2, della L. n. 47 del 85, non ritenendosi che potesse avvenire la demolizione senza pregiudizio della parte eseguita in conformità). L’interessato impugnava il predetto provvedimento sanzionatorio, ma il TAR per la Calabria lo rigettava, con sentenza che poi passava in giudicato.

Nel 2017, il Comune notificava un atto stragiudiziale di diffida e messa in mora con cui veniva intimato agli eredi del debitore, medio tempore deceduto, di pagare l’importo della sanzione.

Lo stesso TAR, con sentenza del 2017, accoglieva l’eccezione di prescrizione e, per l’effetto, disponeva l’annullamento dell’atto impugnato.

Avverso la predetta sentenza, il Comune ha proposto appello, eccependo in via preliminare l’inammissibilità del ricorso di primo grado, sul presupposto che l’atto impugnato sarebbe stato meramente applicativo di un altro provvedimento a monte (ovvero l’ordinanza ingiunzione del 1993), già giudicato valido ed efficace con la citata sentenza passata in giudicato.

Il Consiglio di Stato, Sezione Sesta, con decisione n. 2098 del 29 marzo 2019, ha respinto il gravame.

Oggetto del contendere era la fondatezza dell’eccezione, sollevata dagli appellati, circa l’intrasmissibilità agli eredi della sanzione pecuniaria amministrativa disposta dal Comune nei confronti del de cuius.

Sia la dottrina che la giurisprudenza hanno evidenziato, nell’ambito delle misure amministrative ad effetti limitativi della sfera giuridica, una netta cesura (non solo tipologica ma finanche) sistematica tra sanzione “in senso stretto” e sanzione “in senso lato”, assegnando alle due categorie di sanzioni un diversificato apparato di garanzie sostanziali, procedimentali e giurisdizionali.

La sanzione in senso stretto, ovvero la sanzione pecuniaria disciplinata dalla L. n. 689 del 1981, costituisce reazione dell’ordinamento alla violazione di un precetto cui è estranea qualunque finalità ripristinatoria o risarcitoria ed è inflitta nell’esercizio di un potere punitivo avente ad oggetto condotte, come avviene quando decide il giudice penale.

A questa stregua, la commisurazione della misura afflittiva avviene attraverso un potere ontologicamente diverso dalla discrezionalità amministrativa, che presuppone una ponderazione di interessi, atteso che l’ampio margine di apprezzamento lasciato dalla legge all’Amministrazione dovrebbe essere esclusivamente utilizzato per adeguare la sanzione alla gravità della violazione commessa ed alle condizioni soggettive dell’autore, restando escluso ogni giudizio di valore sugli interessi amministrativi tutelati dalla norma sanzionatoria.

Sul piano delle situazione giuridiche soggettive, tale discrezionalità (esercitata sulla base di criteri diversi, che prescindono dalla valutazione di qualsiasi interesse pubblico) fronteggia posizioni che – anche ai fini della giurisdizione – sono qualificabili di diritto soggettivo alla “integrità patrimoniale”.

Sotto altro profilo, il Supremo Consesso ha osservato che la sanzione in “senso stretto” è irrogata tramite un procedimento diverso da quello previsto dalla L. 7 agosto 1990 n. 241, è garantita dai principi di legalità, personalità e colpevolezza (per quanto mutuati dalla legislazione ordinaria e non dalla Costituzione), ed è suscettibile di integrale riesame giudiziale (senza, cioè, alcun limite di “merito” amministrativo).

Sull’altro versante, le residue sanzioni (quelle cioè in “senso lato”) non ricomprese nella species appena delineata, alle quali si riconducono tradizionalmente le “sanzioni ripristinatorie” ed interdittive (ove non meramente accessorie alle sanzioni amministrative in senso stretto, altrimenti rientrando nella disciplina di cui all’art. 20 L. n. 689 del 1981), costituiscono una manifestazione tipica di potere amministrativo autoritativo, in relazione al quale il cittadino versa in una posizione di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo.

A tali sanzioni “altre” si applicano i principi dell’attività amministrativa tradizionale (dettate dalla legge generale sul procedimento amministrativo), pure quando esse abbiamo carattere marcatamente punitivo.

Ebbene, ha ritenuto il Collegio che, con riguardo alla fattispecie normativa sottoposta al suo esame, la misura sanzionatoria prevista dall’art. 12, comma 2, della L. n. 47 del 1985, non ha carattere ripristinatorio, bensì presenta una chiara impronta afflittiva e punitiva, come risulta dai seguenti due dati, rispettivamente strutturale e funzionale:

- il criterio di computo: la sanzione è pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392, della parte dell’opera realizzata in difformità dalla concessione, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura dell’ufficio tecnico erariale, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale;

- l’assenza di un vincolo di destinazione, atteso che qui il legislatore non ha previsto per le sanzioni, riscosse ai sensi dell’art. 12, comma 2, della L. n. 47 del 1985, alcun vincolo di destinazione a finalità ripristinatorie dei valori tutelati ed incisi dall’abuso.

Da ciò si è concluso che illegittimamente il Comune appellante ha preteso di escutere in capo agli eredi la sanzione pecuniaria amministrativa disposta nei confronti del de cuius.

Rodolfo Murra

(2 aprile 2019)

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