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Corte di Cassazione

Fai causa al datore di lavoro? Da ora i contributi previdenziali vanno allo Stato e non più al lavoratore

Rivoluzionaria sentenza della Cassazione. Per l'ammissibilità della domanda di condanna al pagamento dei contributi, oltre al datore di lavoro, è necessario citare anche l'Inps. È escluso il pagamento dei contributi in favore del lavoratore.

Quando il datore di lavoro non paga i contributi dovuti, i lavoratori possono fargli causa e chiedere che venga condannato al versamento delle somme in favore dell’ente previdenziale.

Attenzione però, l’INPS (o altro ente che sia) deve essere necessariamente citato in causa a pena di inammissibilità.

Con la sentenza n. 19398/2014, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha affermato: “in caso di omissione contributiva, il lavoratore può chiedere la condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi previdenziali in favore dell’ente previdenziale sole se quest’ultimo sia parte nel medesimo giudizio, restando esclusa in difetto l’ammissibilità di tale pronuncia (che sarebbe una condanna nei confronti di terzo, non ammessa nel nostro ordinamento in difetto di espressa previsione)”.

È vero, di regola il processo deve svolgersi tra tutti coloro che sono possibili parti, in quanto questi hanno il diritto di interloquire e contraddire sulle questioni che li riguardano (art. 24 della Costituzione); solo in pochi ed eccezionali casi è ammessa una pronuncia che incida anche su un terzo.

Sebbene questo valga in linea generale nel nostro ordinamento, per molti anni (si veda Sez. Lav., 10 gennaio 1994 n.169), in tema di omissione contributiva, il Supremo Collegio ha ribadito l’insussistenza in capo all’INPS della qualità di “contraddittore necessario”, atteso che la controversia, riguardando direttamente al rapporto di lavoro (come presupposto che condiziona il rapporto previdenziale), implica un accertamento solo con riferimento alla prima relazione giuridica, mentre le conseguenze sul rapporto assicurativo (con l’INPS) sono soltanto “riflesse”.

D’altronde, diceva in precedenza l’orientamento dominante della giurisprudenza, l’esigenza di integrità del contraddittorio non è condizione di ammissibilità della domanda; quest’ultima va proposta unicamente nei confronti del soggetto che ha negato il diritto o che è obbligato al pagamento.

Ora la Cassazione è tornata sui suoi passi e, senza guardare al merito dei fatti ed al diritto soggettivo costituzionalmente tutelato alla posizione assicurativa, con una pronuncia di natura processuale, ha fissati nuovi paletti per l’ammissibilità dei ricorsi ancorandosi alla circostanza che “l’interesse del lavoratore è connesso con il diritto di credito dell’istituto, sia geneticamente, perché nasce dal medesimo fatto che a quello dà origine (la costituzione del rapporto di lavoro), sia funzionalmente perché l’adempimento del debito contributivo realizza anche la soddisfazione del diritto alla posizione assicurativa”.

Conclusione: se l'istituto previdenziale non viene chiamato in causa, il datore di lavoro la fa franca per inammissibilità della domanda e...attenzione perchè in caso di rigetto della domanda proposta, il giudice potrebbe anche condannare il lavoratore al pagamento delle spese processuali in favore del datore di lavoro. Allora si che varrebbe il detto "Piove sempre sul bagnato!".

Fonte: Corte di Cassazione

Luca Tosto

(26 ottobre 2014)

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