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CONSIGLIO DI STATO

Polizia di Stato: la destituzione dal servizio a seguito di condanna penale

Sul termine per avviare e concludere il procedimento disciplinare.

Un agente della Polizia di Stato veniva coinvolto in una torbida vicenda di rilievo penale che aveva visto protagonisti alcuni suoi prossimi congiunti: infatti, da una complessa attività di indagine su un clan camorristico, iniziata nel 2001 e conclusasi nel 2003, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia, emergevano contatti tra esponenti di tale clan e persone organiche ad un sodalizio criminoso finalizzato alla perpetrazione di truffe ai danni di aziende orafe ubicate in diverse zone del territorio nazionale, truffe consumate mediante l’utilizzo come mezzo di pagamento di assegni circolari, provento di rapine, ed assegni bancari privi di provvista.

Di detto sodalizio criminoso facevano parte anche i suoceri dell’Agente.

Peraltro, nel corso di alcune perquisizioni si rinvenivano nelle case di costoro quattro chilogrammi di manufatti in oro, parte del bottino di una truffa. Tuttavia, dalle intercettazioni telefoniche emergeva che non tutta la merce era stata recuperata e che, pertanto, quella non rinvenuta era stata trasportata e nascosta presso l’abitazione dell’Agente: tant’è che, nel corso di una successiva perquisizione, effettuata presso la sua abitazione, venivano trovati oltre a vari oggetti d’oro, tutti riconosciuti come oggetti di proprietà di uno degli orafi che erano stati truffati, anche 200 banconote da lire 100.000 cadauna, per un totale di lire 20.000.000, tutti occultati dietro lo zoccolo della cucina.

Per tali fatti, con sentenza del Tribunale di Milano depositata nel marzo del 2007, il poliziotto veniva condannato alla pena di anni uno e mesi dieci di reclusione mentre la Corte di Appello, con sentenza del 2008, in parziale riforma, lo assolveva dal delitto di favoreggiamento personale, condannandolo alla pena di anni uno e mesi due di reclusione per il reato di favoreggiamento reale aggravato.

Il ricorso per Cassazione veniva, infine, dichiarato inammissibile.

Il procedimento disciplinare aveva inizio già in data 20.5.2003 e si procedeva alla formale contestazione degli addebiti con atto del 29.5.2003 notificato il 31.5.2003. Nel frattempo, il ricorrente veniva tratto in arresto ed in pari data sospeso cautelarmente dal servizio.

La sospensione cautelare del servizio veniva successivamente meno in data 14.5.2009 per decorrenza del termine massimo quinquennale.

Nelle more, stante la pendenza dell’azione penale per i medesimi fatti oggetto del procedimento disciplinare, con decreto del Capo della Polizia del marzo 2005, l’azione disciplinare veniva sospesa.

Con decreto del Capo della Polizia del 200, il procedimento disciplinare veniva annullato con coeva attivazione di un nuovo procedimento disciplinare. A conclusione del procedimento così rinnovato, con decreto del Capo della Polizia dell’aprile 2010 il ricorrente veniva destituito dal servizio, a decorrere dalla data della sua notifica.

Avverso il provvedimento espulsivo l’agente proponeva ricorso al Tar del Lazio, che lo rigettava.

Contro detta decisione, l’agente proponeva appello criticando la sentenza del TAR sia perché il Collegio di primo grado non avrebbe rilevato l’estinzione del procedimento disciplinare per il decorso del termine di cui all’art. 120 D.P.R. n. 3 del 1957, duplicando, a seguito e per effetto di un improprio ricorso all’istituto dell’autotutela, un procedimento disciplinare già estinto, in tal modo violando il principio del ne bis in idem, sia perché il TAR avrebbe omesso di valutare le doglianze contenute nel ricorso introduttivo con cui si deduceva la contraddittorietà e l’incoerenza del complessivo comportamento dell’Amministrazione che, sebbene a conoscenza dei fatti fin dal 2001, avrebbe iniziato l’azione disciplinare solo nel 2003, senza tener conto del servizio medio tempore prestato dall’appellante.

Il Consiglio di Stato, Sez. III, con sentenza di aprile 2019, respingeva l’appello.

Privo di pregio è stato considerato, anzitutto, il motivo di gravame con cui l’appellante lamentava la mancata valorizzazione da parte del giudice di prime cure dell’estinzione del procedimento disciplinare per il decorso del termine di cui all’art. 120 D.P.R. n. 3 del 1957, poi a suo avviso impropriamente rinnovato dall’Autorità procedente.

Il Consiglio di Stato, invero, pur rilevando che, a mente del disposto di cui al comma 2 del citato art. 120, "il procedimento disciplinare estinto non può essere rinnovato”, ha stigmatizzato proprio, in apice, la configurabilità di una fattispecie di perenzione del procedimento disciplinare per decorso del termine di riferimento.

Com’è noto, tale norma, nel disporre che il procedimento disciplinare si estingue quando sono decorsi novanta giorni dall'ultimo atto senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto, intende sanzionare con l'estinzione la completa inattività dell'Amministrazione a tutela dell'interessato, per evitare che questi resti sottoposto ad un procedimento disciplinare pendente per un tempo indeterminato. Il suddetto istituto è, dunque, finalizzato a bilanciare l'interesse dell'Amministrazione alla repressione di condotte lesive del proprio ordinamento interno in rapporto all'interesse del dipendente ad una rapida definizione della propria posizione, in termini positivi o, se negativi, eventualmente suscettibili di tutela in sede giurisdizionale.

Invero, il termine estintivo del procedimento disciplinare, fissato dall'art. 120 comma 1, T.U. 10 gennaio 1957 n. 3 in novanta giorni, s'interrompe ogniqualvolta, prima della sua scadenza, sia adottato un atto proprio del procedimento, anche se di carattere interno, dal quale possa inequivocamente desumersi la volontà dell'Amministrazione di portare a conclusione il procedimento.

Orbene, nel dettagliato resoconto dello sviluppo del procedimento in argomento, è risulta rispettata la prescritta tempistica con riferimento all’intero iter, siccome scandita da atti che, nella loro cronologia infraprocedimentale, si uniformano ai vincoli temporali imposti dalla disciplina di settore anche in ragione dei ripetuti impedimenti per malattia comunicati dall’incolpato con il conseguente differimento delle adunanze davanti all’organo di disciplina, trattandosi di atti idonei ad interrompere il termine previsto dall'art. 120 del D.P.R. n. 3 del 1957.

Ma anche il diverso motivo articolato (secondo il quale il giudice di prime cure avrebbe omesso di valutare le doglianze riportate nel ricorso introduttivo relative alla pretesa contraddittorietà del complessivo comportamento dell’Amministrazione che, sebbene a conoscenza dei fatti fin dal 2001, avrebbe iniziato l’azione disciplinare solo nel 2003, senza tener conto del servizio medio tempore prestato dall’Agente) è stato ritenuto infondato.

Il Consiglio  di Stato ha innanzitutto sottolineato che la circostanza per la quale l’appellante abbia continuato a prestare servizio fino al 2004, pur avendo subito una perquisizione con conseguente sequestro nell’anno 2001, non valeva di certo ad inficiare, con la pretesa automaticità, il rituale esercizio del potere disciplinare.

Invero, l'esercizio dell'azione disciplinare da parte dell'Amministrazione di pubblica sicurezza può avvenire solo qualora venga a conoscenza di fatti materiali, per come gli stessi si sono effettivamente svolti o sono stati circostanziati, non assumendo rilevanza alcuna le notizie afferenti a procedimenti ancora allo stadio di indagini preliminari di cui, peraltro, nemmeno è dato sapere se nella fattispecie ne avesse già all’epoca avuto piena ed integrale conoscenza, attesi i vincoli del segreto istruttorio e la disponibilità degli atti del procedimento penale in capo ad un organo dello Stato (vale a dire il Procuratore della Repubblica) diverso dall’Autorità amministrativa titolare del potere disciplinare.

 

Mattia Murra

(23 aprile 2019)

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