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CORTE DI CASSAZIONE

Peculato e rendicontazione di spese di rappresentanza della P.A: il caso degli "scontrini"

La decisione annulla la sentenza di condanna sia per motivi di rito (omesso rinnovazione dell'istruttoria) sia per difetto di motivazione.

La sentenza che si commenta in questa sede, n. 21166, resa dalla VI Sezione della Suprema Corte di cassazione e depositata il 16 maggio 2019, ha deciso la celeberrima vicenda degli “scontrini” delle spese sostenute dal Comune di Roma – tra l’agosto 2013 ed il giugno 2015 – per conto dell’allora Sindaco.

Come si ricorderà, lo stesso Sindaco, tratto a giudizio per peculato, fu assolto in primo grado dal Tribunale di Roma (con sentenza del 7 ottobre 2016) ma, su appello della Procura della Repubblica, la decisione fu ribaltata dalla Corte romana con statuizione (di condanna alla pena di anni due di reclusione) dell’11 gennaio 2018.

La Procura della Repubblica aveva assunto che il Sindaco, in 52 occasioni, aveva cagionato (attraverso l’utilizzo della carta di credito fornitagli dall’Amministrazione) un ammanco al bilancio dell’Ente stimato in circa 12.116 euro.

Avverso tale seconda sentenza ha presentato ricorso l'imputato, deducendo cinque motivi di impugnazione. Ottenendo piena vittoria con pronuncia di annullamento senza rinvio.

In particolare, con una decisione articolata ed abbondantemente motivata (in 15 pagine!) è stato ritenuto fondato il terzo di detti motivi, che sottintendeva la violazione  dell'art. 603, comma 3-bis, Cod. proc. pen., che, introdotto dall'art. 1, comma 58, della L. n. 103 del 2017, prevede che "nel caso di appello del pubblico ministero contro la sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale".

Alla operatività nel caso di specie di tale disposizione non era di ostacolo, secondo la Corte Suprema, la circostanza che la sentenza di primo grado venne emessa il nell’ottobre del 2016, dunque prima del 3 agosto 2017, data di entrata in vigore della anzidetta legge n. 103 del 2017, in quanto la norma processuale in argomento, attenendo alla rinnovazione della istruttoria dibattimentale in secondo grado, va considerata applicabile in tutti i giudizi di secondo grado svoltisi dopo quella data, compreso il procedimento di cui trattasi, il cui grado di appello è stato definito con sentenza del gennaio 2018.

I giudici di Piazza Cavour Corte hanno ribadito il principio secondo il quale la reformatio in appello della pronuncia assolutoria di prime cure non impone sempre, in automatico, la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per il riascolto di tutti i soggetti esaminati nel corso del giudizio di primo grado, essendo necessaria tale rinnovata assunzione della prova dichiarativa solo se (a) la stessa sia determinante ai fini della decisione di condanna, se (b) sia riconoscibile una reale divergenza tra la sentenza del giudice di primo e quella del giudice di secondo grado in ordine alla valutazione della attendibilità del dichiarante ovvero del contenuto della relativa deposizione e, comunque, se (c) non vi sia una difformità tra il contenuto della deposizione valutato dal primo giudice e quello valorizzato dalla corte di appello.

Di tali principi la Corte di appello di Roma non ha fatto corretta applicazione nel momento in cui ha ritenuto che non fosse necessaria la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per procedere all'esame dell'imputato, sostenendo che lo stesso aveva reso, nel corso del giudizio di secondo grado, dichiarazioni spontanee e aveva depositato una personale memoria contenente ulteriori sue attestazioni.

Gli ermellini hanno sottolineato, infatti, che se è vero che l'esame dell'imputato è, nel vigente sistema codicistico, un mezzo di prova da acquisire nel contraddittorio delle parti, a differenza delle dichiarazioni spontanee dell'indagato al p.m. o dell'imputato al giudice, che hanno tendenzialmente solo una funzione di garanzia, tale distinzione ha tuttavia perso rilievo nella fattispecie nella quale i giudici di secondo grado avrebbero dovuto disporre, a mente dell'art. 603, comma 3-bis, Cod. proc. pen., la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per procedere all'esame dell'imputato, in presenza di dichiarazioni, comunque acquisite nel primo giudizio, sulla cui valutazione di attendibilità non vi sarebbe stato  un apprezzamento convergente rispetto a quelle formulate dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale.

Appare, infatti, circostanza determinante che il giudizio di primo grado nella specie fosse stato definito nelle forme del rito abbreviato: sicché, tenuto a mente che, in generale, deve considerarsi affetta da vizio di motivazione la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell'imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa anche all'esito di un giudizio abbreviato non condizionato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all'esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni, in ragione della instaurazione nel primo grado del presente procedimento di quel rito speciale, era destinata a perdere di rilevanza la differenza tra esame dell'imputato e dichiarazioni spontanee rese al P.M., dovendo valere l'indicata regola processuale per tutte le prove dichiarative comunque acquisite

unilateralmente dalle parti nel corso delle indagini e poi direttamente utilizzate per la decisione dal giudice dell'abbreviato.

Nel merito la sentenza è stata particolarmente severa con l’operato dei giudici di appello osservando che la loro decisione ha offerto, invero, una interpretazione del compendio probatorio sì alternativa, ma molto meno persuasiva di quella privilegiata nella sentenza assolutoria di primo grado: nella quale il Giudice del rito abbreviato aveva molto più convincentemente spiegato come, in mancanza di specifiche regole che disciplinassero le modalità di impiego di quella carta di credito da parte del Sindaco e le forme di successiva rendicontazione, nonché in assenza di successive contestazioni sulla congruità formale di quei documenti da parte di vari organi comunali di controllo e persino da parte della Corte dei conti (organi che talora avevano approvato quelle modalità di compilazione), spettasse alla pubblica accusa fornire la prova certa della contestata finalità privatistica perseguita dall'imputato con l'effettuazione di quelle spese, non potendo quella dimostrazione essere desunta, in maniera “automatica”, dalla genericità delle indicazioni contenute in taluni relativi documenti giustificativi di spesa.

In altre parole, l'eventuale mancanza di prova del perseguimento della finalità pubblicistica (ovvero la) mancanza di prova in ipotesi derivante dalla ritenuta genericità del relativo giustificativo di spesa non equivale alla prova del perseguimento di una finalità privatistica: addotta genericità che non risultava neppure tale nella più parte dei casi: in ciò la Cassazione ha ripreso le espressioni della decisione assolutoria di primo grado, secondo la quale, la predetta genericità non equivale a prova neppure «in relazione all'esposizione della causale dell'impegno ivi rappresentato, risultando sempre di volta in volta esplicitate la ragione per la quale vi si era addivenuti (ad esempio... “per poter dialogare circa l'ipotesi di un progetto editoriale per Roma Capitale", "per discutere di argomenti riguardanti la città di Roma", "per discutere circa la definizione di progetti socio-assistenziali incollaborazione con Roma Capitale", et similia), né in relazione alla pur sommaria individuazione dell'ambito sociale o istituzionale di riferimento dei commensali che vi avevano preso parte ("rappresentanti della Regione", "rappresentanti di case editrici", "giornalisti di testate locali", et simili)».

Sentenza assolutoria di primo grado che, dotata di una maggiore e più stringente forza logico-argomentativa, appare, a differenza di quella dell'appello, rispettosa del principio di diritto già enunciato dalla stessa Suprema Corte secondo cui non è configurabile il delitto di peculato nel caso in cui non sia fornita giustificazione in ordine al contributo erogato per l'esercizio delle funzioni di natura pubblicistica, non potendo derivare l'illiceità della spesa da tale mancanza, ma occorrendo comunque piena prova dell'appropriazione e dell'offensività della condotta, quanto meno in termini di alterazione del buon andamento della Pubblica amministrazione.

Rodolfo Murra

(22 maggio 2019)

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