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Consiglio di Stato

La Federazione Italiana Pallacanestro discrimina gli atleti italiani formati all'estero

Bocciato il regolamento della F.I.P.. Tutela gli interessi economici delle società sportive che massimizzano i profitti vendendo giocatori formati nei propri vivai e presenta profili di incompatibilità costituzionale e comunitaria.

In primo grado, davanti al Tar, il giocatore di pallacanestro si era visto respingere il ricorso, nel quale richiedeva l’annullamento del provvedimento con cui il Segretario Generale della FIP gli aveva negato il tesseramento con lo status di “atleta di formazione italiana”. La Federazione Italiana Pallacanestro, per l’appunto, lo riteneva privo dei requisiti richiesti dall’art.11 bis del regolamento esecutivo – settore professionistico. Tale disposizione stabilisce che un atleta, per essere considerato “di formazione italiana” (indipendentemente dalla sua cittadinanza), deve essersi formato nei vivai italiani e aver partecipato a campionati giovanili della F.I.P. per almeno quattro stagioni sportive.

Nella vicenda in esame, il giocatore, cittadino italiano, era privo del requisito relativo alla formazione in quanto era stato costretto, per motivi familiari (collegati alla separazione dei genitori), a vivere e formarsi tecnicamente negli Stati Uniti.

Secondo quanto affermato dai giudici di primo grado, tale norma non determina alcuna discriminazione o limitazione della libera circolazione, né vieta la possibilità di giocare in Italia, di tesserarsi e di essere ingaggiato da una società. Pertanto, il limite derivante dall’obbligo regolamentare di assicurare la partecipazione ad ogni gara di un numero minimo di atleti formati in Italia riguarderebbe solo le società e non gli atleti. 

Il Consiglio di Stato, Sez. VI con sentenza n. 3037 del 17 giugno 2014 non ha condiviso nè le conclusioni cui era giunto il TAR nè le sopraggiunte argomentazioni difensive della Federazione Italiana Pallacanestro, che eccepivano la tardività dell’appello.

In quanto la posizione di vantaggio di chi si è formato in Italia, incide notevolmente anche sul piano economico di chi – come in questa vicenda – viene discriminato, solo perché si è tecnicamente formato all’estero. La discriminazione, a parere dei giudici d’appello, sembra evidente: da un lato tutela gli interessi economici delle società sportive, che massimizzano i profitti  vendendo giocatori formatisi nei propri vivai e dall’altro presenta profili di incompatibilità costituzionale e comunitaria. Infatti, si dà luogo ad una “discriminazione alla rovescia”: l’atleta italiano formatosi tecnicamente all’estero è penalizzato, senza giustificazione, rispetto all’atleta straniero formatosi tecnicamente in vivai nazionali. In questo modo, il cittadino italiano, solo perché costretto, per motivi contingenti, a vivere fuori dall’Italia vede diminuire le sue possibilità di accesso all’attività sportiva professionistica.

La disposizione regolamentare - aggiungono i giudici di Palazzo Spada - limita lo status di cittadino dell’Unione europea (art. 20 TFUE) oltre che i diritti fondamentali della Carta di Nizza, in quanto restringe: il diritto alla vita familiare; i diritti di circolazione e di soggiorno; il diritto di lavorare e stabilirsi in uno Stato membro.

Pertanto, l’appello è stato accolto e il provvedimento dello Federazione sul giovane cestita annullato.

Per approfondire e scaricare la sentenza clicca su Gazzetta Amministrativa.

Gianmarco Sadutto

(18 giugno 2014)

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