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CONSIGLIO DI STATO

Guardia giurata: il diniego di approvazione della nomina

La sentenza evidenzia i principi che debbono guidare la P.A. nell'esercizio della relativa discrezionalità.

La Prefettura di Sassari, con provvedimento del luglio 2013, ha respinto l'istanza avanzata da un Istituto di vigilanza volta a conseguire il rilascio del decreto di approvazione della nomina di un suo dipendente a guardia particolare giurata.

La negativa statuizione riposava sul vissuto dell’interessato (più volte condannato per furto, porto illegale di armi, detenzione di sostanze stupefacenti), ritenuto non rassicurante sul piano della affidabilità nell’esercizio delle delicate mansioni proprie della guardia particolare giurata vieppiù in considerazione della connessa dotazione di un’arma.

L’Istituto ricorreva al TAR Sardegna che respingeva il ricorso concludendo nel senso che l’Amministrazione aveva fatto un corretto uso dell’ampia discrezionalità che l’ordinamento di settore le riconosce, venendo in rilievo pregressi comportamenti di rilievo delinquenziale in un contesto di tossicodipendenza che, ancorché fatti oggetto di riabilitazione, giustificavano l’opzione rigorista privilegiata dalla Prefettura.

Avverso la suddetta sentenza veniva proposto appello deducendosi, anzitutto, che l'attività delinquenziale dell’interessato era durata dal gennaio 1989 al febbraio del 1994 cioè 5 anni, essendosi la sola vicenda processuale di accertamento dei fatti trascinata fino al 1998.

Soggiungeva, l’impugnazione, che, a partire dal 1997, l’interessato aveva portato a termine con successo il programma terapeutico di disintossicazione dalla droga reinserendosi nella società, formando una famiglia e lavorando stabilmente. Peraltro, con provvedimento del 2012, aveva ottenuto la riabilitazione per tutti i reati commessi risarcendo alle persone offese il danno patito.

Con sentenza n. 3337 del 22 maggio 2019 il Consiglio di Stato, III Sez., respingeva il gravame.

E’ stato osservato, nella pronuncia, che fronte di un allarmante profilo criminale, siccome qualificato da una significativa progressione di azioni delittuose, tutte connotate da oggettivo disvalore e severamente punite dall’ordinamento penale, in un torno di tempo sufficientemente ampio, andava condivisa la prospettiva di valutazione privilegiata dall’Autorità procedente, e convalidata dal giudice di prime cure che ha rilevato l’assenza di elementi di sicura valenza sintomatica idonei a suffragare un radicale ed irreversibile mutamento della condotta di vita dell’appellante, concludendo per la insufficienza di un rassicurante quadro probatorio che consentisse di concludere, con sufficienti margini certezza, per la sussistenza di condizioni soggettive di perfetta e completa affidabilità sì da fugare ogni dubbio, sotto il profilo dell’ordine pubblico e della tranquilla convivenza della collettività, sul possibile rischio di abusi.

Ed, invero, nell’ordito motivazionale sia dell’Autorità prefettizia che del TAR non risultavano affatto obliati il percorso riabilitativo compiuto dall’appellante e gli sforzi di reinserimento sociale compiuti, peraltro suggellati dall’intervenuto provvedimento di riabilitazione. Ciò nondimeno, nell’economia complessiva della valutazione all’uopo svolta ha assunto rilievo prevalente, in una logica prudenziale affatto irragionevole nella materia qui in rilievo, il periodo di osservazione sufficientemente ampio del vissuto soggettivo dell’appellante in cui è prevalsa la stabile dedizione dell’interessato all’azione delittuosa e la sua obiettiva contiguità con gli ambienti criminali.

Nella suddetta prospettiva la riscrittura temporale operata dall’appellante di tale deviato segmento di vita, nel senso di contenerlo in cinque anni (in luogo dei 10 inizialmente dichiarati) e con uno sviluppo della complessiva vicenda giudiziaria nell’arco di dieci anni (circostanze queste, comunque, correttamente apprezzate nel provvedimento di conferma), non muta, con la pretesa automaticità, il punto di equilibrio su cui riposa l’opposto diniego, incentrato, come già detto, sulla rilevata, pregressa abitualità al compimento di azioni delittuose che rende del tutto ragionevole il timore di possibili abusi.

Né può accreditarsi la lettura relativistica offerta dall’appellante che, associando tali condotte al pregresso stato di tossicodipendenza, le ritiene oramai irrepetibili in ragione del percorso disintossicante seguito.

Una siffatta prognosi si fonda, per il Consiglio di Stato, su dati non di sicuro affidamento e che, dunque, recedono dinanzi ad un’esigenza – indubbiamente prevalente – di sicurezza che implica la certezza che non vi siano rischi per la collettività.

Com’è noto, il conferimento della qualifica di guardia particolare giurata, cui accede anche il rilascio di porto d'armi, rientra tra le cosiddette autorizzazioni di polizia disciplinate a livello generale dal Capo III del Titolo I del R.D. 18 giugno 1931, n. 773. Il loro rilascio, pertanto, è condizionato alla verifica della sussistenza dei requisiti generali di cui all'art. 11, nonché a quelli specificamente richiesti dalla norma di riferimento.

Analoga indicazione è contenuta all'art. 43, comma 2, in materia di porto d'armi, laddove egualmente si richiama il requisito della "buona condotta", nonché “l'affidamento a non abusare delle armi”.

L'art. 138, infine, relativo nello specifico al titolo di guardia particolare giurata, al comma 1, nella stesura risultante dall'intervento della Corte costituzionale n. 311 del 1996, consente di valutare la condotta morale del richiedente, senza pretenderne i parametri di assolutezza riconducibili all'aggettivo "ottima", ivi originariamente previsto.

Come di recente evidenziato da orientamenti giurisprudenziali, sussiste in capo all'Amministrazione l'obbligo di valutare, con la discrezionalità tipica sottesa al rilascio delle autorizzazioni di polizia, a maggior ragione in un ambito di particolare delicatezza quale quello che implica comunque l'uso delle armi, la specchiatezza del richiedente, non in termini assoluti e lato sensu etici, bensì, con un approccio finalistico, in funzione proprio dei contenuti specifici della richiesta avanzata. Si è, altresì, precisato che la peculiarità del ruolo della guardia particolare giurata, chiamata a tutelare l'integrità del patrimonio altrui, tanto che il legislatore annette allo stesso il riconoscimento della qualifica di incaricato di pubblico servizio, impone un'attenzione particolare nell'esercizio di tale discrezionalità, non richiedendo necessariamente un giudizio di vera e propria pericolosità sociale dell'interessato.

E’, infatti, noto che l'inaffidabilità all'uso delle armi è idonea a giustificare l’adozione di misure con valenza tipicamente cautelare, senza che occorra dimostrarne l'avvenuto abuso e la relativa valutazione, caratterizzata da ampia discrezionalità, ha lo scopo di prevenire, per quanto possibile, i delitti, ma anche i sinistri involontari, che potrebbero avere occasione per il fatto che vi sia la disponibilità di armi da parte di soggetti non pienamente affidabili.

Il giudizio alla base di tale provvedimento di divieto non è, quindi, un giudizio di pericolosità sociale bensì un giudizio prognostico sull'affidabilità del soggetto e sull'assenza di rischio di abusi, per certi versi più stringente del primo, atteso che il divieto può fondarsi anche su situazioni che non hanno dato luogo a condanne penali o misure di pubblica sicurezza, ma che risultano genericamente non ascrivibili a "buona condotta".

 

Mattia Murra

(22 maggio 2019)

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