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Pubblica amministrazione

Violazione o elusione del giudicato: i chiarimenti del Consiglio di Stato

Il giudizio di ottemperanza nei principi sanciti nella sentenza della Quinta Sezione del Consiglio di Stato del 20 aprile 2015, n. 2002.

La Quinta Sezione del Consiglio di Stato con la sentenza del 20 aprile 2015, n. 2002 ha affermato che nel giudizio di ottemperanza può essere dedotta come contrastante con il giudicato non solo l’inerzia della pubblica amministrazione cioè il non facere (inottemperanza in senso stretto), ma anche un facere, cioè un comportamento attivo, attraverso cui si realizzi un’ottemperanza parziale o inesatta ovvero ancora la violazione o l’elusione attiva del giudicato.

Il nuovo atto emanato dall’amministrazione, dopo l’annullamento in sede giurisdizionale del provvedimento illegittimo, può essere considerato adottato in violazione o elusione del giudicato solo quando da quest’ultimo derivi un obbligo assolutamente puntuale e vincolato, così che il suo contenuto sia integralmente desumibile nei suoi tratti essenziali dalla sentenza, con la conseguenza che la verifica della sussistenza del vizio di violazione o elusione del giudicato implica il riscontro della difformità specifica dall’atto stesso rispetto all’obbligo processuale di attenersi esattamente all’accertamento contenuto nella sentenza da eseguire.

La violazione del giudicato, aggiunge il Consiglio di Stato, è pertanto configurabile quando il nuovo atto riproduca gli stessi vizi già censurati in sede giurisdizionale ovvero quando si ponga in contrasto con precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla statuizione del giudice.

Si avrà, invece, elusione del giudicato se l’amministrazione, pur provvedendo formalmente a dare esecuzione alle statuizioni della sentenza, persegue l’obiettivo di aggirarle dal punto di vista sostanziale, giungendo surrettiziamente allo stesso esito già ritenuto illegittimo.

Da ultimo rileva il Supremo Consesso che il riesercizio del potere da parte della pubblica amministrazione a seguito del giudicato soggiace a precisi limiti e vincoli, basati sull’esigenza di eseguire secondo buona fede la statuizione del giudice della cognizione, senza porre in essere atti o comportamenti soprassessori ed inutili, irrilevante essendo la circostanza che il nuovo provvedimento da emanare possa implicare l’esercizio di poteri discrezionali, incombendo sull’amministrazione l’obbligo di leale cooperazione per la concreta attuazione della sentenza.

Peraltro, sul presupposto che la funzione tipica ed essenziale del giudizio di ottemperanza consista nell’adeguamento della realtà giuridica e materiale al giudicato, il Consiglio di Stato ha altresì evidenziato che nessuna specifica attività incomba sull’amministrazione solo se quell’adeguamento costituisce un effetto automatico, diretto ed immediato dello stesso giudicato, senza necessità di alcuna ulteriore attività amministrativa come, per esempio, nel caso dell’annullamento dell’atto negativo di controllo o di un atto di autotutela che ripristinano automaticamente l’efficacia dell’atto controllato o ritirato.

Emanuele Riccardi

(20 aprile 2015)

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