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Jobs act

Renzi e la "guerra" sull'art. 18: cosa succede nel resto d'Europa?

La materia del contendere riguarda in primo luogo l'obbligo, o meno, per il datore di lavoro di procedere al reintegro del lavoratore licenziato.

Il Premier non ha ancora deciso in maniera definitiva sull’emendamento di cui si era parlato nelle ore successive alla Direzione del PD di lunedì scorso. Tuttavia, sembra sempre più probabile che non se ne faccia nulla. Le solite ”fonti di Palazzo Chigi”, infatti, fanno notare che l’ordine del giorno approvato è troppo vago. Si rischierebbe di irritare l’alleato NCD (che vuole che tutto resti invariato) senza essere sicuri di raggiungere l’obiettivo.

In pratica, ci si sta orientando verso un qualche tipo di impegno, in relazione alle norme attuative da emanare dopo l’approvazione del Jobs act, per apportare le modifiche promesse alla minoranza PD, che -peraltro- con Stefano Fassina ha già fatto sapere che, se venisse posta la questione di fiducia, sarebbe di “dubbia costituzionalità”.

Secondo le ultime indiscrezioni, i tecnici di Palazzo Chigi, in caso di licenziamenti disciplinari, si starebbero indirizzando verso una soluzione che preveda la possibilità di reintegro, ma senza obbligo per il datore di lavoro. Nel senso che, a sua discrezione, potrebbe scegliere di pagare un’indennità al dipendente, che sarebbe calcolata progressivamente rispetto agli anni di servizi. Si tratterebbe, in sostanza, di applicare anche qui il principio generale delle “tutele crescenti”.

Secondo i “tecnici dell’Esecutivo”, questa soluzione potrebbe accontentare sia le richieste della minoranza PD (in quanto il reintegro sarebbe pur sempre “possibile”); ma anche il NCD di Alfano, visto che l’indennizzo potrebbe comunque sostituire l’obbligo di riassunzione. Vedremo come procederà il cammino della delega al Senato; ma è probabile che una proposta di questo genere finisca per accontentare solo i centristi.

Ad ogni buon conto, vale forse la pena di dare un’occhiata all’estero, per vedere cosa succede in caso di licenziamento “senza giusta causa”. Intanto, chiariamo subito che -dopo la riforma Fornero del 2012- il reintegro è divenuto obbligatorio solo nei casi di licenziamenti discriminatori.

Mentre, in caso di licenziamento disciplinare o economico, è previsto un indennizzo da 15 a 24 mensilità, fatta sempre salva la possibilità di dimostrare la manifesta insussistenza del fatto”; come, ad esempio, se la vera ragione del licenziamento è stata “camuffata” con ragioni economiche, quando invece si tratta di tutt’altra cosa.

Spesso si sente dire che, in realtà, si sta facendo “una guerra” per una questione che riguarda meno di tremila casi l’anno, secondo i dati forniti dai sindacati. E’ vero che i casi di reintegro sono tutto sommato molto contenuti; ma, probabilmente, ciò è dovuto anche alla consolidata giurisprudenza in materia nel nostro Paese, spesso orientata ad accogliere le domande del lavoratore.

Per questo motivo, i legali dei datori di lavoro consigliano sempre di raggiungere un accordo prima della sentenza. In realtà è questo che “sconsiglia” la gran parte degli imprenditori di procedere ad assunzioni a tempo indeterminato, anche quando la situazione economica dell’azienda potrebbe consentirlo.

Dando uno sguardo a cosa succede nel resto dell’Europa, si può constatare che in Gran Bretagna, Svizzera e Belgio è sostanzialmente esclusa la possibilità che il lavoratore licenziato possa rientrare in azienda. In Germania questa possibilità esiste,  ma -in realtà- si verifica molto raramente. Ne dà notizia l’agenzia reuters.

In Francia è prevista la possibilità di reintegro, che tuttavia non può in nessun caso essere imposto, esclusi i casi di discriminazione (razza, religione, appartenenza politica). E’ previsto un risarcimento, che può andare da 6 a 24 mensilità. In alcuni casi, il datore di lavoratore può anche essere condannato a pagare un’ indennità per il danno causato al lavoratore.

Anche in Spagna è previsto il reintegro, ma solo in via facoltativa, a scelta dell’azienda, che può decidere di pagare un indennizzo pari a 33 giornate lavorative per ogni anno di impiego prestato, oltre ad una specifica indennità per il mancato rintegro. Nel Nord Europa, in linea di massima, si prevede un indennizzo, accompagnato da una specifica formazione per il reinserimento lavorativo del dipendente licenziato.

In particolare, in Danimarca il reintegro è formalmente previsto, ma si applica in casi rari; in Svezia il licenziamento è ammesso solo per grave disobbedienza o per la ristrutturazione dell’azienda.

In Grecia il datore di lavoro può optare per il pagamento dell’indennizzo in sostituzione del reintegro. In Portogallo ed in Austria si segnalano normative più rigide a tutela del reintegro, in casi di licenziamento senza giusta causa.

Come si può notare, nella gran parte dei Paesi Europei non è previsto il reintegro obbligatorio, che è normalmente sostituito da un indennizzo variabile ed, eventualmente, anche da un risarcimento danni.

 

 

 

Moreno Morando

(3 ottobre 2014)

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