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Libertà del malato

Eluana Englaro aveva il diritto di morire

A distanza di più di 5 anni dalla morte della donna che, a seguito di un incidente stradale, e' stata oltre 17 anni in stato di coma vegetativo, il Consiglio di Stato ha dichiarato illegittima la decisione della Regione Lombardia che di fatto intralciò la sentenza della Cassazione che autorizzava la sospensione del trattamento terapeutico.

Con la sentenza n. 4460 del 2014, pubblicata il 2 settembre, i giudici amministrativi si sono definitivamente pronunciati su uno dei casi più dibattuti degli ultimi anni relativo al delicatissimo “diritto alla morte”.

La sentenza è importante in quanto apre nuove prospettive per le tante persone che attualmente sono in una situazione di stato vegetativo permanente in carico al Servizio Sanitario Nazionale.

Le complesse questioni esaminate dai Giudici di Palazzo Spada vertevano sull’assenza di una specifica regolamentazione legislativa della materia che attiene al fondamentale diritto di autodeterminazione terapeutica del paziente e al suo delicato rapporto con le strutture del servizio pubblico deputate all’assistenza sanitaria.

Ripercorrendo brevemente la vicenda, il primo fondamentale spiraglio per la famiglia Englaro si era aperto nel 2007 quando la Cassazione si era pronunciata a favore del diritto Costituzionale di rifiutare le cure come un diritto di libertà assoluto.

Dopo la sentenza tuttavia, la ragazza in stato vegetativo, era stata costretta ad essere trasportata in Friuli alla clinica “La Quiete” di Udine, per vedere attuata la sentenza della Cassazione che autorizzava la sospensione del trattamento terapeutico e del sondino nasograstrico, e che la Lombardia si rifiutò di attuare. 

La Regione, l'avvenuto decesso di Eluana, ha deciso di adire il Consiglio di Stato per ottenere una pronuncia sulla legittimità del proprio operato, sottolineando, anzitutto, "che attualmente esistono più di 400 persone in situazione di stato vegetativo permanente in carico al Servizio Sanitario Regionale e,quindi la sentenza del T.A.R. Lombardia costituirebbe un pericoloso precedente, capace di rendere addirittura “attraente” il sistema sanitario lombardo per famiglie di soggetti in stato vegetativo permanente che desiderino un trattamento analogo a quello richiesto dal tutore di Eluana."

Aggiunge la Regione che "Nella perdurante assenza di un intervento del legislatore nazionale, che regoli i drammatici aspetti relativi alle dichiarazioni anticipate di trattamento, un eventuale passaggio in giudicato della sentenza ...costituirebbe infatti un precedente “pericolosissimo”, capace di influenzare le eventuali richieste, di analogo contenuto, da parte di altri pazienti e le scelte dell’Amministrazione sanitaria."

Nel merito, secondo la tesi oggi rigettata dai giudici, l’Amministrazione non sarebbe tenuta in alcun modo a soddisfare tale richiesta, poiché compito di questa è, quindi, solo quello di garantire che il malato sia mantenuto in vita, accudito e “curato”.

Sbagliato, dice il Consiglio di Stato: l’evoluzione sociale ha fatto emergere il fondamentale e incomprimibile diritto di autodeterminazione terapeutica, quale massima espressione della personalità dell’individuo.

Esiste quindi il “diritto del singolo alla salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire”.

Nella lunga sentenza si parla di una nuova “alleanza terapeutica” dove “il singolo paziente è soggetto e non oggetto di cura al centro del percorso sanitario, nel quale medico e paziente concorrono nella scelta della strategia terapeutica più rispondente alla visione della vita e della salute propria della persona che si sottopone alla cura”.

Che non resti solo inteso, ma sia ben chiaro: ciò non deve comportare un pericoloso soggettivismo curativo nel quale è “cura” tutto ciò che il singolo malato vuole o crede, perché nell’alleanza terapeutica è, e resta fondamentale, l’insostituibile ruolo del medico nel selezionare e nell’attuare le opzioni curative scientificamente valide e necessarie al caso.

Sulla bufera mediatica del caso, molti si erano pronunciati. Tra chi chiedeva al padre di Eluana di lasciarla nella struttura ospedaliera e di “dimenticarsi di lei” e chi, invece, si era schierato a favore di un pieno diritto all’autodeterminazione.

Oggi la cura come “beneficio” non deve più essere intesa solo come prosecuzione della vita ma anche come accettazione della morte da parte del paziente consapevole.

Questa nuova dimensione della prestazione sanitaria risponde alle esigenze più profonde di un moderno diritto amministrativo prestazionale.

Non può dunque l’Amministrazione sanitaria sottrarsi al suo obbligo di curare il malato e di accettarne il ricovero, anche di quello che rifiuti un determinato trattamento sanitario nella consapevolezza della certa conseguente morte, adducendo una propria ed autoritativa visione della cura o della prestazione sanitaria.

Come ripete più volte il Collegio, l’arretratezza della legislazione sanitaria, l’assenza di norme di azione, o di adeguate misure organizzative, non può esimere l’Amministrazione sanitaria dall’erogare un doveroso servizio. Questo, a maggior ragione, perché la Regione non può sollevare un’obiezione di coscienza della struttura sanitaria nel suo complesso, attenendo l’obiezione di coscienza, per sua stessa natura, al foro interno del singolo medico e non certo all’istituzione pubblica.

Una vicenda questa, come altre simili, profondamente toccante considerando anche che per ottenere questo risultato la famiglia Englaro ha dovuto affrontare undici anni di processi, quindici sentenze della magistratura italiana e una della Corte Europea, l’opposizione del governo in carica, le proteste, le manifestazioni e gli appelli di numerose associazione.

Questa sentenza è una ulteriore “scossa” per il nostro Paese dove, nonostante ci siano stati vari tentativi più o meno incerti, si è ancora privi di una legge per regolare il trattamento del cosiddetto “fine vita” e l’alimentazione forzata in uno stato vegetativo permanente.

Luca Tosto

(13 settembre 2014)

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